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Starbucks - Shakerato al gusto polemica

di Davide Mamone - 31 Agosto 2023

Giugno è stato, negli Stati Uniti e nel mondo occidentale, il “Pride Month”, il mese di celebrazione dell’orgoglio della comunità LGBTQIA+, ma per un’azienda statunitense qualcosa è andato storto: una sigla sindacale chiamata Starbucks Workers United (sì, quello Starbucks) ha pesantemente criticato l’azienda di Howard Schultz (sì, quell’Howard Schultz) per aver costretto alcune delle caffetterie della catena a non esporre la bandiera arcobaleno. Starbucks ha negato ogni controversia, dicendo di aver semplicemente applicato le proprie policy in vigore da decenni e ribadendo il totale supporto alla comunità LGBTQIA+. I vertici dell’azienda hanno ricordato di essere stati tra i primi a garantire ai partner dei propri dipendenti piena copertura sanitaria al di là del genere di unione - nel 1988, quando il mondo corporate USA era molto meno amico nei confronti del mondo arcobaleno. Non solo: è dal 2013 che Starbucks garantisce anche la copertura sanitaria supplementare per coloro che vogliono intraprendere la transizione da un genere all’altro. Questo non è bastato, però, a interrompere la bufera e Starbucks è finita nella polemica, ancora una volta.

Disclaimer: questo non è un editoriale sul Pride Month: abbiamo già parlato negli scorsi mesi del disegno di legge che ha codificato a Washington i matrimoni tra persone dello stesso sesso qualche numero fa. È una riflessione su Starbucks. E ho scritto poco fa le parole “ancora una volta” perché la catena del caffè sta vivendo negli Stati Uniti un cambio di percezione non indifferente, simbolo di un Paese che prende strade diverse a una velocità sorprendente, a volte, anche per le menti imprenditoriali più attente.

Non c’è bisogno di raccontare che cosa sia Starbucks. I punti di forza della catena del caffè più famosa – e redditizia, con oltre 35,000 caffetterie e più di 400,000 dipendenti in 84 Paesi – al mondo sono evidenti: l’atmosfera rilassante e le poltrone comode, la rete wi-fi veloce che funziona sempre, le 30 miscele di caffè diverse tra cui scegliere e i prodotti di buona qualità. Nel corso dei decenni ha attirato i gusti di un pubblico eterogeneo: a fare la fila da Starbucks c’è la classe media nei drive through della Louisiana ad attendere il proprio Frappuccino in macchina così come gli avvocati di Midtown Manhattan a New York a fremere per il loro caffè-latte da portare in studio. Da Starbucks ci sono studentesse e studenti, persone che lavorano nei cantieri così come negli uffici, turisti e viaggiatori. Ma non solo: la catena è stata a lungo punto di riferimento di un mondo politico tendenzialmente progressista negli Stati Uniti, metropolitano e cosmopolita, aperto al nuovo e a suo agio nel diverso. Lo è stato per le elettrici e gli elettori. Ma anche per le politiche e i politici. O almeno, lo è stato fino a qualche tempo fa.

Con lo spostamento del baricentro del partito democratico più a sinistra – almeno secondo i canoni a stelle e strisce – anche molti degli elettori si sono spostati verso quella direzione. E con essi, i loro bisogni. Questo ha portato a uno stravolgimento dell’establishment così come è stato conosciuto da sempre, sia nelle leggi che nelle abitudini: sono sempre di più gli americani che pretendono diritti che non pensavano fino a vent’anni fa nemmeno di poter sognare: più giorni di ferie, maggiore copertura sanitaria, orari più consoni, permessi di maternità e paternità, ritmi di lavoro diversi e così via.

Questa porzione di cambiamento, assieme all’elezione di Joe Biden, da sempre auto-proclamatosi “il presidente più pro-sindacati di sempre”, ci porta a quella che è diventata la prima spina nel fianco per Starbucks e il suo storico chairman, Howard Schultz: la crescita interna delle organizzazioni sindacali. Dalla fine del 2021 sono state più di 93 le segnalazioni al National Labor Relations Board – l’agenzia federale che si occupa di far rispettare le leggi sul lavoro – in relazione a più di 300 pratiche aperte per cattiva condotta contro Starbucks. Di queste, 16 sono state risolte contro l’azienda, costretta ad esempio a reintrodurre 23 lavoratori che aveva licenziato accusandoli di non aver rispettato il proprio contratto. Altre sono tuttora in attesa di giudizio. A marzo, i sindacati di Starbucks hanno indetto uno sciopero nazionale in più di 100 caffetterie sparse per 40 città diverse, chiedendo nuove garanzie contrattuali: lo sciopero è stato rinominato “Founder’s Day”, il nome che Starbucks inventò anni fa, quando la maretta era lontana, per onorare Howard Schultz.

Di progressi ne sono stati fatti pochi: a ottobre, l’unico incontro tra sigle sindacali e vertici aziendali è finito in pochi minuti dopo che i rappresentanti dei lavoratori hanno deciso di allargare il meeting online, su Zoom e i negoziatori dell’azienda si sono rifiutati. Ma gli attacchi ai danni di Schultz, un tempo apprezzato dal mondo del centrosinistra americano, sono diventati all’ordine del giorno, e non solo dai dipendenti. Anche da quei politici che un tempo ne avevano alta considerazione. Ne è un esempio quanto accaduto in commissione Sanità, Educazione e Lavoro e Pensioni in Senato, proprio a marzo, qualche giorno dopo lo sciopero nazionale. Ospite d’onore: Schultz. Chissà cosa deve aver pensato, proprio lui che nel 1994 venne celebrato pubblicamente dal presidente dem Bill Clinton, che nel 2018 criticò platealmente Donald Trump e che nel 2020 disse di ammirare Joe Biden, nel vedersi attaccato per quasi due ore da diversi senatori progressisti. In primis, da Bernie Sanders, il democratico socialista del Vermont che ha riportato in commissione le accuse che i sindacati imputano a Starbucks. Ha parlato di “widespread misconduct” (diffusa negligenza”) e di calculated and intentional efforts to stall and to stall” (“calcolata e intenzionale volontà di porre in stallo le negoziazioni contrattuali”). Ha ammonito contro possibili violazioni dei diritti dei lavoratori e del rispetto delle organizzazioni sindacali. Ha definito Starbucks una corporation che si prende gioco dei più deboli. Schultz, spesso in silenzio e sempre sotto giuramento, alla fine ha sbottato e ha respinto tutte le accuse, ricordando di “essere nato dal nulla” e di essere cresciuto nelle case a prezzo calmierato garantite dal governo federale. Ha accusato Sanders e i dem di alimentare l’allergia verso persone che, come lui, la ricchezza se la sono costruita dal niente. E ha ricordato che Starbucks paga una media di 17,50 dollari l’ora, mentre il minimo salariale garantito negli Stati Uniti è di $7,25.

Ciò, però, non è bastato. Gli attacchi da parte dei dem sono continuati e continuano tuttora. Ma non sono arrivati e non arrivano dai repubblicani, che fino a non più tardi di cinque anni fa mai si sarebbero immaginati di difendere il chairman di una catena di caffetteria amata così tanto dagli elettori progressisti del Paese. E così, il senatore libertario Rand Paul ha definito l’azienda “uno straordinario esempio” di imprenditoria made in USA. Mentre l’ex candidato presidente Mitt Romney – che perse contro Obama nel 2012 – ci è andato giù ancora più pesante: “È davvero incredibile che tu venga attaccato da persone che non hanno mai avuto l’opportunità di generare un singolo posto di lavoro”.

L’udienza in commissione Senato è stata quadro perfetto di una situazione politica capovolta e paradossale. La lotta sindacale in corso, simbolo dei tempi che cambiano anche da questa parte dell’oceano. L’episodio dell’arcobaleno scomparso dalle caffetterie Starbucks nel mese del Pride, segno che qualcosa non sia sotto controllo in azienda. E poi c’è quanto accaduto il mese scorso in una corte federale del New Jersey, ultima spina del fianco per Schultz e i suoi: una giuria ha condannato Starbucks a pagare 25 milioni di dollari a Shannon Philips, un’ex coordinatrice regionale che aveva citato in giudizio la società con l’accusa di averla licenziata ingiustamente. Da Starbucks per più di dieci anni, Philips perse il lavoro dopo l’arresto in una caffetteria di due uomini afroamericani a Philadelphia. La donna si rifiutò di licenziare il dipendente bianco che chiamò la polizia; Starbucks la mandò a casa; e lei, il 14 giugno ha vinto la sua causa legale in cui ha accusato l’azienda di averla discriminata perché bianca.

Una metafora che racconta perfettamente il momento storico vissuto da una delle poche aziende americane che era riuscita a farsi voler bene in maniera bipartisan dagli Stati Uniti. E che continua a essere criticata da un mondo che i suoi prodotti, ora, sembrano far fatica a rappresentare.

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