Il senso di Roma per il trattato del Quirinale

Gennaio 2022 - Scritto da Dario Fabbri

A fine novembre Italia e Francia hanno siglato il cosiddetto trattato del Quirinale pensato per schermarsi da due minacce considerate comuni. Ovvero, il rischio di un ritorno all’austerity da parte della Germania e l’ingerenza della Turchia in Libia, nei Balcani e nel Mediterraneo orientale. Roma e Parigi intendono unire le forze per costringere Berlino a conservare l’apertura fiscale indispensabile a salvare le loro economie. E per limitare l’avanzata di Ankara, capace di fiaccare l’influenza italiana e (specie) francese nell’estero vicino. Accennata agli inizi del 2018, l’intesa bilaterale ha preso forza durante l’ultimo anno, fino alla recente conclusione. A determinare tale accelerazione quanto capitato in tempi di pandemia. Alla perenne ricerca di una narrazione per salvare l’eurozona (soprattutto l’Italia), Berlino ha trovato nel virus la ragione per presentare come necessario il proprio spendersi in favore dei paesi più deboli dell’eurozona. Di qui la garanzia fornita in questi mesi davanti ai mercati affinché la commissione europea potesse emettere i bond che sostanziano il cosiddetto Next Generation Eu.

Ma, nonostante l’afflato solidale, l’opinione pubblica tedesca non intende agire sine die. Anzi, come segnalato nelle ultime elezioni di settembre, vorrebbe presto interrompere il flusso di denaro destinato anche al nostro paese. Al di là delle differenze, le economie italiana e francese non potrebbero sopravvivere alla fine del Next Generation Eu, possibilmente decisa dalla Repubblica Federale. Dunque Roma e Parigi hanno stabilito di fondere le proprie debolezze per imbracare il gigante tedesco, costringendolo a impegnarsi in loro favore anche in futuro. Tradotto: Italia e Francia sono convinte che in questo modo potranno meglio inibire la voglia di austerity rintracciabile nel nuovo governo teutonico, incarnata dal nuovo ministro delle Finanze, Christian Lindner.

Ancora, il trattato del Quirinale è stato elaborato con un occhio alla Turchia. Sebbene colpita negli ultimi anni dall’offensiva proprio della Francia nel Maghreb e nel Sahel, l’Italia ha deciso che Parigi rappresenta il male minore se paragonata ad Ankara. Di fatto, esistente sotto il tallone turco in Tripolitania e insidiato dalla penetrazione neo-ottomana nei Balcani, il governo italiano preferisce appiattirsi sulle posizioni francesi anziché sfidare direttamente Erdogan – inizialmente il presidente del Consiglio, Mario Draghi, aveva provato senza successo a innescare la reazione degli Stati Uniti definendo “dittatore” il presidente turco. Da alcuni anni Emmanuel Macron ha individuato nella Turchia il suo principale nemico, tanto nel Mediterraneo e in Africa quanto all’interno dell’Esagono, dove Ankara è accusata di indottrinare gli imam radicali che agitano le banlieu. Così tirando verso sé Roma, alla ricerca di un alleato con cui sfidare la potenza anatolica.

Queste le principali motivazioni del trattato del Quirinale, patto quasi obbligato per il Belpaese, preoccupato d’essere schiacciato tra l’austerity e la disinvoltura della Turchia. Con il rischio di scivolare ulteriormente nella sfera d’influenza industriale della Francia, già ampiamente alimentata dall’acquisizione negli ultimi anni di aziende italiane di valore strategico. Scenario potenzialmente negativo, eppure ritenuto accettabile in assenza di alternative migliori.

Dario Fabbri

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