Salvare il pianeta, la missione del G20

Dicembre 2021 - Scritto da Dario Fabbri

Come previsto, il G20 di Roma si è concluso con un nulla di fatto. Consessi multilaterali solitamente funzionano soltanto se un egemone impone la direzione, altrimenti si perdono nei mille rivoli di interessi confliggenti. Quello dell’Eur non ha fatto eccezione

Al termine dei lavori si è convenuto che i partecipanti si impegneranno a ridurre le emissioni entro la metà del secolo, prima di darsi appuntamento alla successiva (fallimentare) COP26 di Glasgow. Nient’altro. Assai poco per il battage pubblicitario che ha accompagnato l’evento, quanto perfettamente normale considerata la storia dell’assemblea.

Il G20 nasce alla fine degli anni Novanta in ambito esclusivamente economico per meglio governare le crisi finanziarie - l’ultima era capitata pochi mesi prima. Di fatto, si proponeva come lunga mano del Washington Consensus, nucleo dell’impero americano.

Vi partecipa(va)no 19 Stati di ogni provenienza più l’Unione Europea. Comunque spuntato, almeno per quindici anni ha svolto la funzione di vetrina della globalizzazione, ovvero di un’egemonia americana data per placida. Nel suo vidimare le decisioni d’oltreoceano, ha funzionato come megafono per suggerimenti maliziosi e paternalistici forniti ai clientes. Almeno finché l’ascesa di Pechino e la frustrazione di Mosca non ne hanno intaccato la tenuta. Rendendolo perfino meno concreto degli esordi. Per cui negli ultimi anni il G20 si è trasformato in un momento in cui i principali leader del pianeta si ritrovano per realizzare bilaterali che altrimenti faticherebbero ad avere nello stesso numero e in un tempo tanto breve. Tutto qui.

Resta ancora il posticcio tentativo di presentare le questioni discusse come universali ed eventuali accordi come sforzi per salvare l’intero pianeta, ma i risultati tradiscono puntualmente l’assenza di peso del contesto. Mentre il clima al suo interno si è fatto nettamente più frastagliato degli esordi.

Così è capitato nel G20 romano, soprattutto nello scontro tra India, Cina, Russia e il resto dei Paesi occidentali in merito alla questione climatica, con le cancellerie asiatiche contrarie a qualsiasi impegno cogente in materia, preoccupate che al solito Washington e sodali utilizzino il surriscaldamento globale per colpirne la produzione industriale, per imporre le regole del gioco.

Così è emerso un finto compromesso relativo alla metà del secolo, con i firmatari in disaccordo perfino nell’individuare concretamente quel termine temporale. Se per Washington trattasi del 2050, per Delhi sarebbe invece il 2070, per Mosca addirittura più in là nel corso degli anni. Discordanze che palesano concezioni del mondo opposte, impossibili da conciliare in due giorni trascorsi nella capitale italiana. E che soprattutto rivelano un atteggiamento più rissoso da parte degli antagonisti degli Stati Uniti, meno inclini a presentare un fronte comune per i media internazionali, molto più interessati a difendere i propri interessi, in nome di una maggiore concretezza.

Quanto svuota il G20 di ogni valenza assembleare, lasciando soltanto i frutti dei tete-a-tete tra capi di Stato e di governo avvenuti a margine del summit.

Dario Fabbri

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