Israele e Palestina, le tre novità dell’ultima crisi

Giugno 2021 - Scritto da Dario Fabbri

Tra Israele e Palestina è scoppiata l’ennesima crisi armata. Prima del cessate il fuoco del 21 maggio, 228 persone avevano perso la vita nella striscia di Gaza,  12 tra la popolazione israeliana. Oltre la tragica ciclicità del conflitto, gli eventi di questi giorni segnalano almeno tre novità, di portata inedita, destinate ad avere conseguenze rilevanti sulla traiettoria dello Stato ebraico e dell’intero Medio Oriente.

Apparentemente il conflitto di maggio si configura come l'ennesima crisi tra le parti. Per cui ogni cinque, sette anni Israele è chiamato a colpire il nemico per ridurne l’arsenale missilistico, mentre Hamas deve attaccare oltre confine per corroborare la propria leadership e ricordare al mondo la sofferenza dei palestinesi.

Questa volta la deflagrazione è stata provocata dallo scontro per alcuni titoli immobiliari a Gerusalemme Est, in abitazioni appartenenti alla popolazione araba ma reclamate da quella ebraica.

Al solito, dopo alcuni giorni di guerra, i belligeranti hanno interrotto le ostilità senza alcuno stravolgimento dello status quo. Eppure la crisi ci offre tre fattori ignoti.

Anzitutto, abbiamo assistito alla violenta rivolta dei cittadini arabo-israeliani, impegnati a scagliarsi contro le istituzioni dello Stato ebraico a Lod, ad Acri, a Gerusalemme Est, città di cui si cantava la convivenza tra ceppi diversi. Scontri che hanno palesato la vulnerabilità di Israele, padrone del proprio destino ma preoccupato dal precipitare del fronte interno. Incubo che potrebbe minarne il margine di manovra. Perché riguardante circa un 1/5 della popolazione, in spettacolare crescita, mai assimilata, forse pronta ad allacciarsi ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.

Quindi si è registrata l'assenza per Israele degli storici nemici esterni, ovvero le potenze arabe del Golfo. La firma sui cosiddetti accordi di Abramo da parte di Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, con la decisiva benedizione dell’Arabia Saudita, segnala la drammatica debolezza dei soggetti in questione, costretti ad affidarsi agli Stati Uniti, dunque allo Stato ebraico, per sopravvivere nell’attuale congiuntura. Questo il profondo significato del mutuo riconoscimento con Israele - aperta collaborazione con il governo Netanyahu per quanto riguarda i sauditi -  ovvero la rinuncia alla causa palestinese per rafforzare il proprio status nella regione.

Emblema di una estrema debolezza, che in questa fase fornisce a Israele il lusso di navigare il presente con relativa tranquillità, fino a concentrarsi sulle minacce di medio o lungo periodo, non soltanto sull’Iran.

Da ultimo, è necessario considerare l’ascesa della Turchia, terzo elemento sconosciuto dell’ultima guerra israelo- palestinese. Già da alcuni anni Ankara ha  esteso la propria influenza sulla Siria, sulla Tripolitania, sui Balcani, sul Mediterraneo orientale. Tanto da spingere Gerusalemme ad aumentare la propria presenza in Grecia, proprio in funzione anti-turca.

Così in queste settimane Recep Erdogan si è proposto come unico paladino dei palestinesi, pronto ad accusare gli israeliani di ogni nefandezza e gli arabi di colpevole disinteresse. Fino a giurare di vendicare le ingiustizie commesse dallo Stato ebraico. Svolta che, mentre Teheran tratta con gli Stati Uniti una tregua che ne stemperi le sofferenze economiche, annuncia il futuro scontro per l’egemonia mediorientale tra Ankara e Gerusalemme. Questione su cui presto dovranno intervenire gli americani, per il momento soddisfatti di utilizzare la Turchia per frenare le ambizioni di iraniani e  russi. Elementi di novità di una battaglia, per il momento sopita, che nel prossimo futuro informeranno il contenzioso tra Israele e Palestina.




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