Taiwan, Il premio nella competizione sino-americana

Novembre 2021 - Scritto da Dario Fabbri

Stati Uniti e Cina si sfidano per Taiwan. L’isola bella è il maggiore punto di attrito tra le due potenze, bottino per cui muovere guerra. Al centro della prima catena di isole che da Okinawa giunge fino al Vietnam, Taiwan è barriera naturale che impedisce a Pechino di andare in mare aperto. Abitata da una popolazione contraria (in maggioranza) all’annessione alla Repubblica Popolare, è centro del soffocamento ordito da Washington ai danni del nemico.

Se la Cina comunista vuole trascendere se stessa e arrivare all’Oceano Pacifico deve riprendersi Taiwan, con le buone o con le cattive, anche per obliterare l’esistenza di una Cina alternativa, quella nazionalista. Se gli Stati Uniti intendono scongiurare che il rivale arrivi a poche miglia dalle Hawaii devono mantenere l’informale controllo su Taipei, anche per segnalare ai clientes asiatici la propria disponibilità a battersi per la causa. Ragioni che, a queste latitudini, potrebbero rendere incandescente la competizione per la supremazia planetaria.

Nonostante la vulgata la voglia a un passo dal troneggiare sul mondo, la Cina fatica a dominare i mari rivieraschi, là dove passa il 90% delle merci che esporta. Davanti a sé si staglia un gruppo di isole e arcipelaghi che fisicamente la costringono nel suo spazio, perché contese o nella disponibilità di altri Stati.

La più importante è Taiwan. Originariamente abitata da austronesiani e anticamente colonizzata da han provenienti dalla terra ferma, l’isola ha assunto i connotati attuali nel 1949, quando Chiang Kai-shek e i nazionalisti cinesi vi si rifugiarono dopo essere stati sconfitti dai comunisti di Mao. Nonostante la sua genesi culturale, negli ultimi decenni ha sviluppato un’identità distinta dalla Repubblica Popolare, per cui oggi la popolazione è tendenzialmente contraria all’unificazione. Di più. È protettorato degli Stati Uniti, intenti a mantenere in vita una Cina diversa, spina nel fianco della madrepatria.

Tale condizione l’ha resa traguardo ambito, specie per Pechino. Stando alle dichiarazioni del presidente Xi Jinping, la Repubblica Popolare vorrebbe recuperare l’Isola entro il 2049, centenario della rivoluzione maoista. Possibilmente attraverso la seduzione economica o con l’imposizione del fatto compiuto. Obiettivo tattico di Pechino non è attaccare militarmente, quanto convincere i taiwanesi dell’impossibilità di opporsi al gigante di terraferma, così da iniziare un negoziato che conduca all’annessione del territorio. Ma se tale persuasione non funzionasse, la dirigenza comunista sarebbe pronta ad agire sul piano militare.

E qui la situazione si complica. Perché Washington è assai contraria a lasciare campo libero alla Cina comunista. Gli Stati Uniti non possono accettare di perdere il primo ostacolo nei confronti dello sfidante, né di segnalare ai soci asiatici l’eventuale riluttanza a difendere la propria egemonia.

Se Pechino sbarcasse a Taipei, certamente Washington dovrebbe reagire, accettando di andare alla guerra per Formosa (antico nome assegnato all’isola dai portoghesi), con la possibilità di scatenare un’escalation nucleare. Di fatto, rinunciare a sparare significherebbe accettare l’ascesa cinese e la balcanizzazione della globalizzazione in salsa statunitense. Ovvero, la fine di una supremazia assoluta, improvvisamente condivisa con il principale antagonista.

Motivazioni e scenari che fanno di Taiwan la più pericolosa isola del mondo, primo fronte della competizione tra Stati Uniti e Cina, destinata a incresparsi ulteriormente nei prossimi anni. Fatalmente centrata sul controllo dei mari cinesi e sull’accesso all’Oceano Pacifico. Fino a tradursi in guerra.

Dario Fabbri

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