Situazione Afghanistan, Il senso del ritiro americano

Ottobre 2021 - Scritto da Dario Fabbri

È sempre arduo comprender gli eventi nel momento in cui accadono. Davanti al ritiro americano dall’Afghanistan si sono moltiplicate le analisi che annunciano il definitivo declino di Washington, altre che spiegano il vantaggio netto della Cina, altre ancora che paragonano la disfatta attuale con quella del Vietnam.

In realtà Washington beneficerà di tale dipartita, segnale di una rilevante maturazione imperiale, aldilà del danno d’immagine provocato dalle drammatiche ultime ore a Kabul. Nella loro fase adolescenziale gli imperi si lasciano guidare dall’emotività, vivono di impulsi estemporanei, fino a rendersi autolesionistici. Allora sono imperialistici, ovvero inclini a intervenire ovunque soltanto perché ne hanno i mezzi, abituati a mettere i piedi nel piatto a ogni occasione.


Tanto interventismo genera una grave dispersione di energie, sottratte all’applicazione in teatri decisivi, mentre i nemici profittano della distrazione. Effetti negativi di una postura giovanilistica che gli imperi riconoscono soltanto successivamente, quando comprendono di dover intervenire militarmente soltanto nei casi strettamente necessari, se non è possibile fare altrimenti. Passaggio che nella storia è stato di tutti gli egemoni, dai romani agli ottomani fino ai britannici.

Ciò che oggi riguarda gli Stati Uniti, finalmente consapevoli di dover risparmiare le proprie energie, pronti a tramutarsi da imperialisti e imperiali. Negli ultimi anni gli apparati di Washington hanno cominciato a ritenere la guerra indispensabile soltanto in ambito strategico, la dove un mancato combattimento determina lo scadere della supremazia americana. Soltanto in tale circostanza. Per concentrarsi con maggiore efficacia sulla manutenzione del sistema americano, sul contenimento dei principali nemici, sul risparmio delle risorse a disposizione.

Primo evento del nuovo corso è il ritiro dall’Afghanistan. Al termine di vent’anni trascorsi nell’a-strategico paese centroasiatico, gli Stati Uniti hanno deciso di tornare a casa, consegnando il territorio ai talebani, oggi i principali rappresentanti dell’etnia pashtun. Soprattutto assegnando la gestione esterna dell’Afghanistan alle potenze che vi gravitano attorno, tutte antagonistiche a Washington. Specie a cinesi e russi, coloro che si sono maggiormente avvantaggiati del lungo soggiorno americano nell’Hindu Kush. E ora chiamati a coprire il vuoto di potere, per scongiurare che il paese possa causare gravi conseguenze alla loro traiettoria.

 

Per Pechino, sulla rotta che dal Xinjiang conduce al porto pakistano di Gwadar, tra i principali snodi delle nuove vie della seta, progetto di controglobalizzazione in salsa cinese da contrapporre al dominio americano. Per Mosca, sull’intera tenuta dell’Asia centrale, potenzialmente segnata dalla guerriglia islamica e dalla penetrazione della Turchia. Qualora l’Afghanistan collassasse oppure si tramutasse ancora nel santuario del jihadismo globale, per Cina e Russia la congiuntura assumerebbe toni alquanto negativi, mentre non avrebbe riverbero sulla parabola degli Stati Uniti, pressoché immune a quanto capita a Kabul.

 

Questo il senso del ritiro americano, ragione della preoccupazione che attanaglia le potenze regionali, al di là della propagandistica soddisfazione irradiata in queste settimane. Plastica confutazione del declino di Washington, profondità assai difficile da cogliere al momento, impossibile da interpretare senza strumenti geopolitici.

Dario Fabbri

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